13.8 C
Bastia Umbra
1 Maggio 2024
Terrenostre 4.0 giornale on-line Assisi, Bastia Umbra, Bettona, Cannara
Bastia Umbra Cultura

Voltare lo sguardo. La mostra storica Mignini&Petrini

Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici
Università degli Studi di Perugia
Un pomeriggio di Pasqua freddo e uggioso porta una più che naturale pigrizia nelle nostre case, all’interno delle quali corpi barcollanti e gravidi di cibo si destreggiano con compiaciuta fatica fra tavola, divano e televisione. Non con poco sforzo sono riuscito infatti a indurre  il mio corpo – sempre gravido e barcollante – ad uscire di casa, per recarmi presso gli stabilimenti Petrini di Bastia Umbra, dove il 3 aprile è stata inaugurata la mostra dal nome “Due imprese una storia. Mignini&Petrini: duecento anni di alimentazione nel cuore verde d’Italia”, patrocinata da Regione Umbria, Comune di Bastia, Città di Assisi e Assalzoo. L’iniziativa rientra tra quelle promosse dall’Università di Perugia come membro del comitato “Le Università per Expo 2015”.
Oltrepassare l’ingresso dello stabilimento mi fa un certo effetto. Da piccoli si bighellonava sempre nelle vicinanze, dato che la piazza lì è a due passi, ma Petrini rimaneva un grande mistero per noi, un vuoto buio e inesplorato proprio al centro della città, del nostro mondo quotidiano, fatto di lunghe pedalate, pizzette ed Estathe. La sbarra era sempre chiusa e sorvegliata. “Ma dove li parcheggeranno poi tutti quei camion?”; “Chissà come saranno alti i sili visti da sotto!”. Poi c’era mio nonno, che lì ci ha lavorato per tutta la vita. Lui invece poteva entrare senza problemi, in sella alla olandesina celeste.
La mostra è al secondo piano della struttura che ospitava gli uffici dell’azienda. Con me c’è una famiglia, anche loro visibilmente provati dai bagordi pasqualizi: padre, madre e due figli. Le stanze che ospitano l’esposizione sono molto luminose e ben tenute: parquet a terra e pareti imbiancate. La soglia si sviluppa in un lungo corridoio punteggiato da porte, che un tempo fornivano l’ingresso per altrettanti uffici. La sensazione che si prova ad entrare in questi ambienti è quella del classico “tuffo nel passato”. Immagino il rumore delle tastiere Olivetti o l’odore forte dell’inchiostro dei fax, che potevano aleggiare in un caotico giorno qualunque del 1990, quando la Spigadoro era un marchio di respiro internazionale e quando il settimanale “Il Mondo” inseriva la Petrini-Spigadoro S.p.a. tra le prime 500 società del mondo. Ora le maniglie sono scomparse e per ogni porta è affissa una gigantografia di alcune immagini d’archivio che ritraggono scene quotidiane o foto di gruppo scattate all’interno della fabbrica, in bianco e nero.
«Queste foto c’erano già prima o fanno parte della mostra?», chiede la moglie al marito.
«Sono della mostra!» risponde il marito, non poi così convinto. Ritraggono per la maggior parte donne, sorridenti nei loro camici bianchi, con la cuffia in testa e dei calzari particolari che somigliano a scarpe da ballerina, intente a impacchettare spaghetti o a presidiare la loro postazione davanti ai macchinari.
«Chi sono queste, papà?» «Sono … non lo so». In effetti le immagini non hanno didascalia e sembrano essere state installate lì con un intento che sta a metà fra il decorativo e l’ideologico, un po’ come i poster di Baggio che attaccavo alla porta della mia camera.
La mostra continua e forma un percorso circolare, con 8 sale, guarda caso ricavate proprio da quegli uffici, prima chiusi dai poster delle eroine industriali anonime, ora resi accessibili da un corridoio parallelo, senza porte questa volta – senza pareti a dire il vero – illuminato da grandi vetrate che guardano il piazzale interno dello stabilimento,  dove sorgono gli edifici del mulino e del pastificio. Dagli uffici sono sparite le Olivetti, i fax, le scrivanie, le sedie, tutto. Ma ci sono dei grandi pannelli, con dei grandi grafici, che narrano la storia “dall’avvento delle prime macchine per la lavorazione meccanica di cereali e leguminose, ai primi insediamenti…”
Mi distraggo e guardo fuori: immagino i B-17 o i B-24 alleati che nel ’44 sfrecciano sopra la mia testa e sganciano le bombe proprio lì, davanti a me, lasciando al posto del mulino e del pastificio solo detriti. Immagino, senza riuscirci, la disperazione a seguito dei bombardamenti e la tenacia che la famiglia Petrini ha saputo ritrovare e l’entusiasmo con il quale tutto è stato rimesso in piedi, meglio di prima.
Torno in me e nella seconda sala-ufficio si parla della tecnologia del silos. Certamente è interessante capire che l’immagazzinamento in verticale abbia storicamente cambiato l’organizzazione del lavoro e anche gli immaginari collettivi attraverso la riorganizzazione degli scenari e degli orizzonti urbani. Quasi tutta una parete è occupata da un’immagine che mostra un enorme complesso di sili, decorato con colori accesi.
«Guarda bello, papà! Una volta qui era così colorato?» «Eh, no. Quella foto è stata scattata in America» «E allora perché ce l’hanno messa?»
Continuo la visita. Sala 5: “Pastifici industriali. Nuove abitudini a tavola”; Sala 6: “Mangimifici. L’Italia del boom economico”. Ancora grafici e mappe concettuali. Sono annoiato. Mi sembra di stare all’università, a sentire il professore che legge torpido le proprie slide proiettate sul muro. Ho la netta sensazione che non sto trovando quello che cercavo, e guardo ancora fuori. Il piazzale è gremito di persone, camion e macchine. Ci sono tutti i fratelli Petrini riuniti, un vero evento, ansiosissimi di presentare il nuovo e imponente mangimificio, simbolo delle scelte vincenti di una straordinaria generazione di imprenditori, chissà se immaginavano che quell’edificio sarebbe diventato il simbolo di una intera città. È il 1966, e nel trambusto vedo anche mio nonno, che parcheggia l’olandesina celeste e si dirige verso la postazione ai miscelatori. Lui non bada molto a tutti questi movimenti, si piuttosto preoccupa perché il lavoro al pastificio porta via molto tempo; poco ce ne rimane per occuparsi dell’orto e degli animali e forse dovrà venderli. Del resto il “Sor Giuseppe” paga bene, anche gli straordinari, e con due figli è meglio stare sicuri.
Dopo l’ottava sala si vira tornando al corridoio di partenza. Prima dell’uscita scopro però altre tre sale. All’interno si scorgono vecchi registri contabili esposti in teca, vecchie foto di archivio e un video documentario nel quale persone intervistate narrano le proprie storie, le proprie emozioni, il proprio punto di vista nell’arco di tempo trascorso all’interno del pastificio. «Forse questo è questo ciò che stavo cercando» penso rallegrandomi, per poi venire a sapere che il pastificio in questione è quello della Ponte S.r.l. di Ponte S. Giovanni. Le vicende che senza dubbio legano la storia della Ponte S.r.l. alla storia della Mignini&Petrini -che ho purtuttavia scoperto grazie a quelle tre sale- legittimano comunque in pieno l’esistenza delle ultime sale all’interno della mostra, ma non mi impediscono di uscire da questa completamente frastornato, totalmente insoddisfatto.
Lungi da me di fare della vicenda una questione di campanile, la mostra in questione si inserisce in un momento delicato e fondamentale per la vita di quello che rappresenta una grossa fetta del patrimonio storico-culturale di Bastia Umbra come l’area Petrini. L’inaugurazione dell’evento sembra quasi figurare come un delicato test di prova per quell’idea che vede gli stabilimenti riqualificabili come un potenziale cuore culturale del centro cittadino. Le strategie sulle quali si dovrebbe basare una politica del genere sono quelle che conducono verso le profondità identitarie del territorio, che portano il visitatore della mostra a riconoscere  se stesso in ciò che è esposto, a costruire la propria storia a partire dalla storia di tutti. Per fare questo è necessario un lungo e ragionato lavoro di ricerca, da condurre proprio sul territorio in questione e con chi ne fa parte. Questo non  sembra essere stato assolutamente fatto in questa occasione, non in questo senso almeno. L’esposizione tratta i temi dell’industria mangimistica, molitoria e della pasta in maniera generalista e quasi del tutto decontestualizzata, che in un’ottica legata a strategie di politica culturale locale e territoriale perdono di senso e valore. Il fatto che un unico abbozzo di ricerca sul campo sia stato fatto in una realtà extra-cittadina che, sebbene oggi entri di diritto nella storia della Mignini&Petrini, è stata per un certo periodo di tempo persino concorrente commerciale del gruppo Petrini, sa di paradosso e dimostra ancora una volta la disattenzione e la superficialità con le quali viene fatta la cultura oggi, a Bastia Umbra come in tante altre realtà locali.
Mi piace comunque l’idea di aver qui immaginato, voltando simbolicamente lo sguardo dal lato opposto, un piccolo esempio di quello che invece mi piacerebbe vedere esposto in una mostra del genere, ripercorrendo le mie memorie e combinandole con quelle di tutti, a formare una storia unica e condivisa, nella quale anche un uomo e la sua olandesina possono trovare il proprio posto e la propria dignità.
29/05/2015
Cristiano Croci

1 commento

Chiara 1 Giugno 2015 at 19:39

Sei proprio un grande Cri…….complimenti…..chiara e nonna Mary……

Rispondi

Lascia un commento