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28 Marzo 2024
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Cultura

L’amore durante il ventennio

“Meglio la tassa che le corna!”. 
Considerati “cattivi italiani” gli scapoli con più di 25 anni venivano tassati. 

Gli uomini da una parte e le donne da un’altra: per i giovani del Ventennio, gli approcci con l’altro sesso erano molto meno agevoli di oggi. Fin da piccoli, ragazzi e ragazze conducevano vite separate: divisi a scuola (i bidelli richiamavano i bambini che rivolgevano la parola alle bambine), non si incontravano neppure fuori, perché le fanciulle, tenute in casa, uscivano raramente da sole. I primi contatti erano vissuti in completa clandestinità.

Nelle sale da ballo – uno dei pochi luoghi di incontro -, invitare troppo spesso la stessa ragazza equivaleva a una dichiarazione d’amore. Ma la necessità aguzzava l’ingegno. E così, in assenza del telefono cellulare, per comunicare con l’amata, si ricorreva all’antenato dell’sms: il bigliettino consegnato all’amica, con la speranza che la messaggera di turno non lo buttasse o ne modificasse il contenuto.

Chi voleva spendere qualche lira si affidava al “segretario galante”, che i bigliettini li scriveva su commissione per chi era debole di penna. Stabilito il contatto, la possibilità di uscire da soli non era nemmeno contemplata: fino al fidanzamento ufficiale, i due colombi si incontravano soltanto in presenza di un’amica o della sorella della ragazza. Ed essendo proibito baciarsi in pubblico, gli innamorati potevano al massimo tenersi teneramente per mano.

Eppure il regime incoraggiava i matrimoni in ogni modo. E lo faceva per raggiungere gli obiettivi di una delle campagne alle quali Benito Mussolini teneva di più: quella demografica, annunciata nel 1927. L’anno dopo Mussolini scriveva: “Il tasso di natalità non è soltanto l’unica arma del popolo italiano, ma è anche quello che distinguerà il popolo fascista, in quanto indicherà la volontà di tramandare la sua vitalità nei secoli”.

Achille Starace, dal 1931 segretario del Partito Fascista, traduceva per la plebe:”Tutti gli organi del Partito funzionano. Devono perciò funzionare anche gli organi genitali”. Alla fine degli anni Venti, la popolazione italiana contava circa 40 milioni di abitanti: Mussolini voleva portarla a 60. I provvedimenti furono numerosi. Si istituì una tassa sugli scapoli con più di 25 anni (solo per gli uomini, perché si supponeva che le zitelle fossero rimaste tali contro la loro volontà), dal momento che i maschietti avevano coniato lo slogan: “Meglio la tassa che le corna!”. Ai giovani sposi furono concessi assegni e prestiti.

Vennero date agevolazioni a chi faceva figli e le madri prolifiche che ne avevano almeno 7 venivano premiate con un assegno di 5 mila lire e una polizza assicurativa. Con solennità venivano celebrati matrimoni di massa: il 30 ottobre del 1933, a Roma, in un solo giorno ben 2.620 coppie si scambiarono le fedi. Le madri in difficoltà e gli orfani venivano assistiti dall’Opera Nazionale della Maternità e dell’Infanzia (Onmi) che, fra le altre cose, provvedeva a dare un tetto e un’istruzione ai bambini senza genitori e organizzava corsi di puericultura per le mamme.

Dal 1922 al 1941 il tasso di natalità scese però da 28,3 a 23,6 nati per mille abitanti. A farlo crollare sotto i 20 fu la guerra, tornata a sconvolgere per la seconda volta in un secolo i territori della Penisola. Sembra, quindi, plausibile che gli italiani si affidassero a qualche forma di contraccezione. Il controllo delle nascite ricadeva spesso sulle donne, che praticavano clandestinamente l’aborto (un crimine, secondo la legge, fino al 1978), con purganti, infusi di prezzemolo o ferri da calza.

I preservativi invece erano visti più come una barriera contro le malattie veneree che come un metodo per non avere figli. Nel 1923, a Bologna, aveva aperto la prima fabbrica italiana, la Hatù. La pubblicità era vietata, ma i preservativi erano venduti nelle farmacie che esponevano un’insegna a forma di termometro, con la scritta Hatù. Erano di caucciù, grossolani e poco scorrevoli e costavano circa il doppio di adesso: per una bustina da tre del modello “standard” si sborsavano 5 lire e mezza (5 euro di oggi); 14 lire e 80 centesimi per una confezione da sei della serie “Oro”. Gli acquirenti aspettavano che la farmacia fosse vuota per entrare e nessuno avrebbe mai osato chiederli a una commessa donna. Anche perché farlo significava confessare un’abitudine tanto diffusa quanto imbarazzante: la maggior parte dei preservativi, infatti, veniva usata nei bordelli.

 Le case del piacere aprivano alle 10 del mattino e, con una pausa per il pranzo e una per la cena, lavoravano fino a notte inoltrata. La clientela variava a seconda dell’orario: al mattino erano frequentate da vecchi e contadini, scesi in città per il mercato. Al pomeriggio, nei bordelli di prima categoria, arrivavano i professionisti, i gerarchi e gli ufficiali. Nelle ore serali, soprattutto nei giorni di paga, le case si riempivano anche di operai e di impiegati.

All’ingresso la guardiana (di solito un’ex prostituta che nessuno più voleva e che viveva di mance) si faceva consegnare borse, ombrelli e bastoni, che erano vietati all’interno, e controllava le carte di identità dei più giovani, che potevano frequentare i bordelli solo a partire dai 18 anni.

Nota di redazione: Testo e foto di riferimento “Dal focolare al bordello” di Margherita Forte (Focus Storia)

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