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Bastia Umbra Cultura

CULTURA – MANIFESTAZIONI CULTURALI – PROMOZIONE DEL TERRITORIO.

Il foglio bianco della nostra identità

Dopo l’incontro tra l’Amministrazione e i commercianti per gli eventi natalizi, il dibattito si è acceso: articoli, post, opinioni, persino antiche ricette 😉 (una anche mia!) hanno invaso social e giornali locali.
Eppure non scrivo per replicare, né per alimentare l’ennesima sterile polemica, scrivo solo degli accenni su una riflessione vasta che riguarda i tre temi del titolo di questo scritto e che andrebbe fatta tutti insieme in incontri dibattiti ecc.
Riflettere, riflettere tutti oltre l’io, io, io.
Perché dietro a tutto questo c’è un tema più grande, più profondo: la nostra cultura, la nostra identità, il nostro territorio.
È tempo, dopo decenni, di guardarci allo specchio e riconoscere chi siamo davvero.

C’è chi dice che Bastia sia una pagina bianca, pronta per essere scritta, un album da colorare come si vuole.
Ma la verità è che quella pagina non è mai stata vuota.
Abbiamo una storia, radici vive, un racconto che pulsa sotto la superficie delle nostre strade della nostra pelle.
Siamo una città moderna, sì — commerciale, industriale, dinamica — ma siamo anche figli della terra, allevatori, contadini, venditori di bestiame.
È da qui che nasce la nostra forza: da mani sporche di lavoro, da menti visionarie, da una comunità che ha saputo costruire, fare, creare.

Non è un caso se sul nostro stemma non compaiono torri, aquile o castelli: ma un vomere e/o una vanga.
Simboli umili, concreti, profondi.
Il segno di chi ha scavato nella terra per costruire il proprio futuro.

E allora viene spontanea la domanda: cosa è rimasto di tutto questo?
Quante iniziative hanno saputo resistere al tempo, diventare tradizione, trasformarsi in eredità culturale?
Quali eventi, opere o edifici raccontano oggi la nostra identità, restituendola alla città come patrimonio condiviso?
Poche tracce, poche voci.
Forse solo una: il Palio de San Michele.

Fu Don Luigi Toppetti a immaginare, negli anni Sessanta, un modo nuovo di sentirsi comunità, un legame che unisse competizione, arte, spirito e appartenenza.
Da lì è nato il Palio, ed è cresciuto fino a diventare ciò che oggi tutti conosciamo e viviamo.
Il resto, purtroppo, è un mosaico di demolizioni, di idee spente, di occasioni mancate.
È la fotografia di una città che troppo spesso ha dimenticato di leggere la propria storia.

Ma il nostro retaggio culturale esiste, eccome se esiste.
Scorre nelle radici delle nostre campagne, negli allevamenti, nei capannoni che un tempo brulicavano di vita, di lavoro intenso e di speranza.
Porta i nomi di chi ha fatto impresa e visione: Petrini, Franchi, Isa, Manini, Giontella, Emmond.
È il frutto di chi ha saputo sognare, di chi ha creduto tanto da creare Agriumbria e Umbriafiere, simboli concreti di una terra che voleva crescere e farsi conoscere.
Oggi, invece, sembra che abbiamo smesso di costruire.
Abbiamo smesso di sognare.

Avevamo imboccato una strada giusta, poi l’abbiamo tagliata troppo presto.
Ricordate “Buono come il pane”?
Era una manifestazione semplice ma straordinaria, nata da un’idea che parlava di noi, del nostro legame con la farina, il grano, la panificazione.
Un progetto pilota che avrebbe potuto diventare un punto di riferimento nazionale, capace di unire gusto, cultura, tradizione, oserei dire anche dieta mediterranea e industria.
Se solo avessimo creduto di più nel suo potenziale, oggi potremmo raccontarla come un’eccellenza al pari dei “Primi d’Italia”.

E poi c’è la porchetta — la nostra, quella vera, quella che profuma di storia e di mani esperte che affonda le radici già nel 1200 con i frati e San Francesco.
Se chiedete in Italia dove si fa la porchetta più buona, quasi tutti risponderanno Ariccia.
Ma chi ha assaggiato la nostra sa che non ha paragoni.
Eppure, ancora una volta, non abbiamo saputo valorizzarla, né raccontarla.
Abbiamo persino lasciato che “Porchettiamo”, una manifestazione che avrebbe potuto nascere qui, diventasse un successo altrove.
Un altro tassello del nostro patrimonio lasciato scivolare via.

Potrei continuare a lungo, perché Bastia è piena di storie, di simboli, di segni che parlano del nostro passato produttivo e umano.
Ma serve una cosa sola per farle emergere: la volontà di ascoltarci, di riconoscerci, di credere ancora nel nostro valore.

Oggi, purtroppo, sembriamo fermi.
Inchiodati alle provocazioni, ad iniziative che cambiano di anno in anno, come fuochi d’artificio destinati a spegnersi all’alba.
E ogni volta restiamo davanti allo stesso scenario:
un foglio bianco.

Un foglio che dovrebbe raccontare la nostra storia, la nostra cultura, il nostro retaggio.
Un foglio che aspetta solo di essere riempito — non di parole e di invenzioni, ma di visione, di passione, di coraggio.
Perché la nostra identità non va reinventata: va solo riscoperta.

09/11/2025
Roberto Capocchia

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