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21 Settembre 2024
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Bastia Umbra

Riflessioni di Bruno Broccolo su Bastia – Seconda parte.

In questa seconda parte faccio un approfondimento sull’area ormai da considerarsi tutta sotto tutela diretta ex art. 10 Dlgs. 42/2004. Mi aiuto con qualche fotografia presa con il telefonino o addirittura da google, cercando di rendere l’immagine da uomo della strada. Ho avuto modo di vedere, per lavoro (sono in ogni caso “atti pubblici”, come si dice), i provvedimenti di avvio del procedimento per l’apposizione del vincolo sia della parte produttiva “Mignini”, sia della parte “Spigadoro”: una grande area tra il centro storico di Bastia Umbra e la SS 75 verso sud. A est l’area confina con un’altra grande area di riqualificazione “Piazza del Mercato” e a ovest con il Fiume Chiascio. Mignini e Spigadoro sono aree simili, ma non identiche.
La parte che per comodità chiamerò Mignini e che riguarda il grande fabbricato dei silos a ridosso del nuovo parco commerciale Coop, ha un’attività produttiva del tutto residuale, mentre la parte Spigadoro, a ridosso del centro storico, mantiene una discreta attività produttiva, anche se i fabbricati su Via dell’Isola romana versano in stato di abbandono e sono in disuso.
Il vincolo sulla parte Mignini è stato apposto con Decreto alla metà di ottobre del 2023, mentre quello della parte Spigadoro è recentissimo, ed è motivato soprattutto dalla necessità di dare coerenza e completezza a quanto già detto con il Decreto del 2023. E dunque analizzerò in maniera particolare quest’ultimo, molto più approfondito nella parte motivazionale. Per rendere chiaro a tutti il significato del vincolo, esso ha la stessa qualità e gli stessi effetti giuridici del vincolo posto sulla Basilica di Assisi o sul Palazzo dei Priori di Perugia. Ciò significa che ogni minima modifica dovrà essere autorizzata preventivamente dalla Soprintendenza sulla base di un dettagliato rilievo e progetto.
Confesso che reputo le motivazioni a supporto del procedimento di vincolo della parte Mignini (denominato Spigadoro Petrini nel decreto di vincolo), imprecise, deboli e lacunose e che l’apposizione del vincolo potrebbe determinare una grande difficoltà nello sviluppo successivo della città di Bastia Umbra. Dico “potrebbe” poiché l’azienda Mignini ha proposto ricorso amministrativo avverso il decreto di vincolo e l’esito finale non è scontato. Al momento, tuttavia, il vincolo apposto nel 2023 è pienamente efficace, con tutto quello che ciò comporta.
Vi sono due ordini di ragionamento diverso che mi sento di sostenere: uno più culturale; l’altro più tecnico. Ovviamente entrambi sono legati in maniera quasi inestricabile, anche se spero ancora distinguibili.

Partiamo dal profilo più culturale. E’ solo in parte condivisibile la notazione della Soprintendenza secondo cui “[….] il complesso può considerarsi l’elemento chiave dello sviluppo sia industriale che urbanistico della città [….]”. Il rilievo è vero, ma è rivolto al passato: il complesso è stato l’elemento chiave dello sviluppo sia industriale (meno), che urbanistico (più) della città. Sotto il profilo industriale, infatti, quel complesso ha funzionato dal 1965 (anno di collaudo), al 1990 circa, data in cui si è cominciato a pensare al nuovo PRG di Bastia e a immaginare anche una zona a Ospedalicchio dove delocalizzare l’attività Petrini. In ogni caso quei fabbricati sono stati, nel corso degli anni, sempre meno utilizzati dall’azienda, e anche adesso lo sono in via del tutto residuale.
Oggi, nel momento in cui l’amministrazione comunale ha da poco adottato il Piano Regolatore Generale, prevedendo uno sviluppo diverso per la città, l’apposizione del vincolo ex art. 10 DLgs 42/2004 rischia di creare un passo falso proprio nel momento di avvio del piano. Nel PRG adottato nel 2023, l’area Petrini Spigadoro è vista come elemento prioritario della rigenerazione urbana, ricollegando il quartiere di Umbriafiere con il quartiere di Santa Lucia e del Villaggio XXV Aprile. Previsione che ora dovrebbe fare i conti con un elemento di difficile integrazione nella nuova visione. Il perché sarà forse più chiaro una volta terminata la lettura di questo breve testo.

La nota della Soprintendenza, in un passaggio, parlando sempre dell’area Mignini, afferma che [il complesso] “[….] rappresentando tuttora un simbolo identitario di Bastia Umbra [….]”
Quel complesso, ma soprattutto l’elemento turrito dei sili, rappresenta OGGI un elemento identitario di Bastia Umbra? Per alcuni sì, per altri meno. Rappresenta un elemento di riconoscimento, sicuramente. Rappresenta tuttavia l’identità di una Bastia che non c’è più.
E’ facile confondere la riconoscibilità con l’identità. Senza volerci addentrare in distinzioni psicologiche e sociali forse troppo sottili, possiamo tuttavia tracciare una differenza i due concetti: l’identità è il senso che un individuo ha di se stesso, che si basa in parte anche sul riconoscimento altrui. Vi è insomma, nella definizione della identità, la ricerca di coerenza tra come un individuo si percepisce e come viene percepito da altri. La riconoscibilità attiene invece a una modalità che appartiene tutta ad altri: l’altro mi riconosce. L’identità ( e in questo caso la metafora è calzante), è un processo di “costruzione” continua, sottoposta continuamente a verifica e aggiustamenti, attraverso il quale l’individuo si identifica, appunto.
E’ di tutta evidenza, allora, che non si può forzare una persona o una collettività ad assumere un’identità che non è più quella, che non è più la sua. Non si può “schiacciare” una persona sul proprio passato. Né una collettività, né una città. Il passato è sicuramente importante ma non può determinare in maniera rigida, apodittica, assoluta, tutto lo sviluppo futuro. Vi sono città che sono nate e che oggi sono sepolte dall’acqua, dalla sabbia, o più semplicemente dal tempo, dall’abbandono. Le città mutano nel tempo.
Il grande manufatto dei sili è dunque sicuramente un elemento che distingue Bastia dal resto del paesaggio, che la rende dunque riconoscibile. Ma questo è facile a dirsi. Sarebbe stato riconoscibile, paradossalmente, anche con un edificio diverso, più semplice, più prosaico, meno raffinato. Oggi quell’edificio non è più un elemento dell’identità perché una parte della collettività locale non vi si riconosce più. Una parte sì, ed è una parte che ha ancora legami affettivi e personali con quegli edifici e con quella storia. Lo capisco: quell’edificio rappresenta la certezza che quella storia c’è stata, che quelle persone ci sono state, che vi sono delle emozioni legate a quei luoghi. E la solidità di quegli edifici pare garantire anche la solidità e la certezza di quei ricordi. E questi ricordi andrebbero salvaguardati, perché sono una cosa bella. Ma quella storia industriale non c’è più, quel tessuto sociale non c’è più. La proprietà è diversa dalla famiglia fondatrice e le persone che vi lavorano fanno riferimento al baricentro assisano o spoletino. Quella storia, quel racconto, non c’è più.
L’impianto Mignini è espressione e apice dell’attività molitoria, che si è protratta per una ventina di anni a partire dagli anni 60, e in cui una gran parte della collettività bastiola si riconosceva. Oggi questo grande silos è sottoutilizzato e incombe sull’area a ridosso del centro storico. Il fabbricato rappresenta oggi, se non il fallimento di una storia, l’esaurimento di una spinta, la fine di una società e dei suoi modi produttivi. Lo ha ben raccontato il professore Pineiro a una presentazione pubblica del libro di Antonio Mencarelli sullo stabilimento e non vi tornerò sopra. E a mio avviso i pochi anni (pochi anni nell’ottica secolare dei monumenti urbani), in cui è stato elemento forte della vita cittadina non gli hanno consentito di “stratificare” una memoria, un ricordo intergenerazionale così forte da trasformarlo in elemento identitario.
Oggi la proprietà non intende più usarlo per gli scopi per i quali fu costruito. Questo è un punto fermo da tenere a mente: è un punto da cui partire perché altrimenti si erra per soluzioni non praticabili. Oggi quel silos non è più funzionale all’azienda, che immagino investa molti soldi ogni anno per mantenerlo in minime condizioni di esercizio, fornendo un minimo reddito, se lo fornisce ancora. La decisione di disfarsene è stata presa tempo fa, e anche il PRG del 1996, nel momento in cui classificava l’area come ancora produttiva, si premuniva di trovare un’area di delocalizzazione vicino a Ospedalicchio. Oggi quel tipo di silos non è più funzionale, in generale (nell’industria molitoria), e non è più funzionale nello specifico a un’azienda che ha il suo cuore produttivo presso il Comune di Assisi, a Petrignano.

Ritengo che in questo caso sia stata la mole dell’edificio ad aver condotto a fare riflessioni che hanno si sono “appoggiate” sulla la mole stessa e che hanno “invaso” il profilo più squisitamente estetico. Il pensiero di fondo è che la dimensione, soprattutto verticale, sia quella che fa la differenza. Oso pensare infatti che lo stesso fabbricato, se fosse stato alto 5.7 metri, (invece di 57 metri), non avrebbe attirato l’attenzione di alcuno. E’ dunque sia la sua imponenza verticale a fare la differenza: la sua immanenza, la sua imponenza (come recita anche la schedatura del Censimento). Quali usi si potrebbero dunque immaginare per un edificio (o meglio: un complesso di edifici) di quel tipo? Ancora meglio dobbiamo dire quali usi possibili senza stravolgere l’immagine e la consistenza attuale di quel fabbricato? Perché (e qui tocchiamo un punto topico del vincolo), se il vincolo ha natura prettamente conservativa, come è, non sono possibili molte modifiche. Se non ha natura conservativa non si vede nemmeno che cosa voglia tutelare se non la semplice dimensione e imponenza. Che mi sembra assurdo.

Qualsiasi uso plausibile, al di là delle questioni di stabilità, su cui torneremo, deve prevedere la rispondenza a una serie di norme oggi vigenti. Pensiamo alla necessità di avere delle finestre verso l’esterno, per aerare e illuminare un manufatto che è profondo circa 16 m. Un edificio costituito da uno spazio verticale derivato in sostanza dall’affiancamento di decine di “tubi” di cemento armato, di 30 metri di altezza. Che uso fare di questa sorta di grande organo con canne di cemento armato di circa 3×3 m di sezione? Veramente difficile immaginare un uso minimamente confacente con una proprietà privata, senza stravolgere l’aspetto esterno (e interno), della costruzione.
Vi è l’onere dell’allineamento alle normative vigenti sotto il profilo energetico, qualsiasi uso riusciamo a dare al manufatto. Non sfuggirà infatti a nessuno che quelle pareti in cemento armato di pochi cm di spessore sono un vero disastro sotto il profilo energetico, in estate e in inverno. Non si intravvede altra possibilità, per non stravolgere l’aspetto esterno del fabbricato, di intervenire pesantemente dall’interno, senza peraltro riuscire a risolvere tutti i ponti termici. E anche qui con costi straordinari.
Infine i problemi legati alla sicurezza antincendio. Anche in questo caso, per non stravolgere all’esterno il fabbricato, con una di quelle scale esterne che oggi si vedono in molti edifici, bisogna stravolgerlo all’interno.
E dunque tutto si risolve a salvare la sua mole nelle sue tre dimensioni esterne, vero elemento di riconoscimento.

 

Sotto il profilo strutturale l’edificio ha bisogno di un’operazione di miglioramento sismico (come condizione minima), o di un adeguamento sismico (come condizione ottimale), e di un’operazione continuativa di manutenzione ordinaria o straordinaria, vista anche la vetustà dello stesso.
L’intervento di miglioramento sismico potrebbe essere anche sostenibile sotto il profilo dei costi, ma non risolve il profilo dell’uso, anzi: lo può solo irrigidire, prevedendo (forse), un ispessimento delle pareti e dei pilastri. Il miglioramento sismico può dunque solo “cristallizzare” l’edificio nella sua configurazione attuale, lasciandolo dunque monumento di se stesso, fantasma di se stesso, bozzolo metallico e minerale.
L’adeguamento sismico lo dovrebbe invece stravolgere. Impossibile pensare ad un intervento di adeguamento sismico lasciandolo nella sua veste attuale. L’intervento sarebbe così invasivo che il fabbricato ne uscirebbe stravolto, se non irriconoscibile. Se il miglioramento sismico della sede storica del Comune è stato vissuto come profondamente traumatico, l’adeguamento di questo complesso risulterà così invasivo da modificare completamente l’aspetto esterno del complesso.
In questo caso ci sembra che il Censimento dei Monumenti del Moderno, pure preso a fondamento della motivazione della Soprintendenza, sia impreciso. In primo luogo, per quanto riguarda i sili, le chiusure laterali non sono “pannelli”, ma sono più normalmente delle pareti in calcestruzzo. Le “paraste” che connotano la superficie esterna non sono dei pilastri con delle asole verticali in cui alloggiare degli apparenti pannelli, ma sono dei veri e propri pilastri, che consentono così anche un migliore aggancio dei ferri di armatura. In definitiva non vi è nemmeno quel valore di sperimentazione o di innovazione che la schedatura gli attribuisce.
In secondo luogo, lo stato del calcestruzzo e delle coperture non è affatto “buono” come recita la scheda del Censimento, ma pessimo, come può verificare ognuno, semplicemente avvicinandosi all’edificio o scattando una foto con un buon fattore di zoom.

Gli stessi ragionamenti vanno fatti per alcuni dei fabbricati vincolati con l’avvio del procedimento di fine luglio. Se gli interventi sono complessi per i sili rettangolari dell’arch. Dino Lilli, non oso immaginare che cosa si possa dire del complesso formato dai 18 sili cilindrici verso Via Torgianese, di cui allego qualche foto.
Pensare di consolidare questo aggregato, mantenendone in qualche modo la fisiognomia, e trovando allo stesso tempo un uso “civile”, significa porsi una sfida che richiederà centinaia di migliaia di euro. E al momento confesso che ignoro se questa tecnologia sia minimamente disponibile. E’ anche vero che la verifica della bontà antisismica dell’edificio spetta alla totale responsabilità del Soprintendente, che quindi potrebbe prendersi l’onere di dichiarare “sicuro” il fabbricato senza tanti interventi, con una certa nonchalance. Ricordo infatti che in tema di Beni Culturali l’unico titolato a verificare e quindi a autorizzare i lavori è il Soprintendente. Si veda infatti l’art. 16 della L. 64/1974, secondo il quale la responsabilità esclusiva per l’esecuzione dei lavori resta in capo al Soprintendente. Ma dubito che ci sarà questo coraggio. Vi sarebbe poi la necessità della continua manutenzione ordinaria di tutta una serie di fabbricati in cemento armato con quasi 80 anni alle spalle, e dunque a costi crescenti. Se i nostri ponti e viadotti sono un rischio, questi edifici lo sono ancora di più. E la manutenzione costa: si pensi solamente al costo dei ponteggi per andare a fare una “semplice” manutenzione ordinaria, per togliere la scorza di cemento che si sta distaccando e mettere in sicurezza i ferri di armatura.

Un altro motivo su cui si fonda il vincolo è l’autorialità e cioè sul fatto che questi edifici siano stati progettati e realizzati sotto la supervisione dell’arch. Dino Lilli. Ora, nessuno più di me ha rispetto per l’architettura e per i maestri dell’architettura. Occorre tuttavia fare delle distinzioni e dei raffinamenti di pensiero.
Non tutte le opere dei grandi maestri sono dei capolavori. Succede anche ai migliori di incappare in qualche errore o, più banalmente, fare un po’ di ordinaria professione. Un po’ di quotidiana professione. E mi sembra sia questo il caso. Tecnologie e tecniche forse sperimentali per l’epoca, ma non possiamo parlare di capolavori. Non si può paragonare l’Hotel Sangallo di Perugia con i sili di Bastia, per rimanere a Dino Lilli. E se non sono capolavori, sono lavori.
Che valore ha dunque l’autorialità? Ha un valore storico, biografico, per tracciare una completa cronaca e cronologia delle opere dell’autore. E questo valore può essere salvaguardato con un lavoro archivistico, storico, monografico, di raccolta dei disegni, di cura degli archivi.
Dino Lilli è tra l’altro un maestro dell’architettura, che tuttavia vede il suo rango limitato all’Umbria. In Umbria è personaggio di primo piano: allargando l’ottica, le sue opere sono al livello di molti altri architetti italiani degli anni 50 – 70. Il fatto che l’abbia progettato Dino Lilli non può essere un tabù, una cosa che la pone fuori da qualsiasi discussione.
Non si può mantenere tutto, non si può ricordare tutto. Anche a livello mentale, il ricordare tutto è una malattia. E dunque deve essere possibile parlare della demolizione di alcuni fabbricati.
Si proceda a un rilievo dettagliato, questo sì: un rilievo architettonico, materico, strutturale, tecnologico, fotografico, filmico e voli con il drone. Se ne faccia un gemello digitale, come si dice oggi. Ma una volta compiuto il rilievo si convenga che la fase conoscitiva è conclusa.

 

Posso già anticipare un’obiezione che verrà da più parti probabilmente: “Caro architetto, esistono altri esempi di restauro su beni di questo tipo e quindi è possibile intervenire anche su fabbricati simili …”. Certo che ci sono progetti di restauro di opifici industriali: da Renzo Piano (partendo da Torino e passando per Parma), a Heatherwick Studio in Sudafrica, a Shenzen, passando per Livorno. Ma c’è un ma. Anzi: più di uno.
Alcuni edifici industriali consentono con una certa facilità il loro recupero ad altre funzioni. E’ il caso spesso di uffici reinsediati in locali che prima erano già uffici, magazzini, sale di lavoro di operai, aree di carico e scarico materiali. Edifici generalmente grandi e con una certa “indifferenza distributiva”, che consentono dunque un progetto di riuso “ordinario”. Nessuno dubita che la parte degli uffici e magazzini verso Via dell’isola Romana (Foto da google), possa essere “facilmente” riconvertita. Ma non è il caso dei sili, i quali hanno una altissima specializzazione funzionale e non sono nati per accettare la presenza umana.
Il secondo “ma” riguarda appunto l’uso di questi sili. Immagini accattivanti (disponibili in rete), di grandi contenitori dedicati nel 90% dei casi a mostre d’arte contemporanea. Con un uso del cemento armato sbalorditivo e a mio avviso impensabile nel nostro territorio sismico. Nel caso di Livorno il complesso dei sili funziona un po’ (anche), come museo di se stesso.
Il terzo “ma” riguarda la localizzazione geografica e urbana: sono esempi incomparabili per bacini di utenza e per posizione all’interno di una città e di una regione.
Il quarto “ma” è la governance che ha consentito il risultato: il montaggio economico e finanziario di una cordata di soggetti pubblici e privati tutti facoltosi. I privati trovano legittimamente il loro profitto nell’arte o in migliaia di mq di “rigenerazione urbana”. Il pubblico trova forse qualche fondo in linee di finanziamento una tantum, si concentra sulle procedure e cerca di uscirne con un bilancio pluriennale che non lo affondi. Il montaggio di questa compagine è un vero e proprio lavoro e la sua cristallizzazione avviene sulla base di un progetto condiviso.

Il vincolo apposto immette un altro grado di complessità nel sistema, già difficile di suo, nel caso di un progetto su un singolo oggetto tutelato puntualmente dal Codice dei Beni culturali, ed è la numerosità degli oggetti e l’area complessiva. Nel caso di un singolo edificio, oggetto, monumento, la questione si risolve sul piano del progetto di restauro (perché di questo si tratta), del singolo oggetto. Ed è già una questione difficile, come ho detto, pensare a un restauro del blocco dei 18 sili cilindrici, per esempio. Ma qui occorre “mettere a sistema”, come si dice, un complesso di una decina di edifici diversi disposti in maniera casuale (oggi urbanisticamente casuale), all’interno di una più ampia area di circa 6 ettari. Le dimensioni del problema (non c’è bisogno di scomodare Koolhas per capirlo), implicano un salto di scala qualitativo del tema e non solo quantitativo. Il tema non è più solo di restauro architettonico, ma urbano. Ed è qui che dicevo che il vincolo pone dei forti limiti all’azione pianificatoria del Comune. Che tipo di previsione urbanistica è possibile fare su un’area di 6 ha punteggiata da una serie di edifici tutelati puntualmente dal Codice dei Beni culturali? Ha senso procedere al restauro di uno di essi senza un obiettivo generale di tutta l’area? E in che rapporti funzionali si deve porre quest’area con il resto della città? Che rapporto insomma tra quest’area e il centro storico o tra quest’area e Piazza del Mercato?
A me pare che con questo vincolo (anche aerale, e non solo puntuale), il Comune sia costretto a imporre un piano attuativo per il disegno dell’area (e questo potrebbe essere anche normale), ma soprattutto a invitare la Soprintendenza stessa al tavolo della pianificazione (e questo non è normale).

Premesso che sarei l’architetto più felice del mondo (e con me penso una lunga fila), se fossi incaricato del restauro e della rigenerazione di quell’area e di quegl’edifici, il punto finale, su cui si arenano tutte le migliori intenzioni del mondo, è l’equilibrio economico dell’operazione. Chi è disposto oggi a fare un intervento su fabbricati del genere? E quale tipo di intervento? Con quali tempi? Con quale certezza di tempi? Se è un investitore privato occorre trovare un uso che produca un reddito continuo. Ma trovare un uso che non stravolga l’area e che restauri gli edifici mi sembra difficile. Se è un attore pubblico (il Comune, il Ministero), potrebbe invece espropriare gli edifici e l’area circostante e farne un museo di se stesso o un Centro Sociale Polivalente (quando architetti e politici non sanno che fare, generalmente se ne escono con un “Centro Sociale Polivalente”). In questo caso sarà un museo un po’ caro, ma tant’è.

Nella nota della Soprintendenza non si fa poi alcuna distinzione i vari manufatti diversi della parte Mignini, tutti ugualmente vincolati, senza modulare la motivazione: il gruppo dei due sili accoppiati con il suo corpo scale, il fabbricato ad un piano molto più ampio: un prefabbricato degli anni ’80, e tutta un’altra struttura in metallo (sia in copertura sui fianchi), disposta perpendicolarmente ai sili. Né analoghe differenziazioni vengono fatte con il “nuovo” vincolo: tutti gli edifici e le aree sono tutelate. “Poi vedremo con il progetto”: questo è il non detto. Eppure è evidente che vi sarebbe una valutazione diversa da fare tra questi manufatti, a tacere del fatto che il vincolo sic et simpliciter su tutta la particella catastale vincola anche la cabina elettrica di trasformazione visibile anche da Via IV Novembre.
Se posso concedere qualcosa sulla monumentalità dei sili di Lilli, non riesco a capire che cosa ci sia da salvare negli altri fabbricati. Fabbricati e manufatti tecnologici che in qualsiasi altro luogo saremmo disposti a demolire facendo una petizione su change.org.

L’apposizione del vincolo ha posto problemi di non facile soluzione. Alcuni riguardano i profili istituzionali e politici, altri più economici e tecnici.
Ritengo che la Soprintendenza, per consentire un progetto che abbia un senso anche urbano, e consentire dunque uno sviluppo della città di Bastia, dovrà accettare un progetto molto invasivo sui fabbricati e sull’area. Se invece vorrà mantenere un atteggiamento conservativo, difficilmente saremo in grado di montare una governance così complessa e costosa, e i fabbricati saranno sempre più vandalizzati e destinati alla ruderizzazione.
Il rischio è che il Tempo tolga ogni interesse a questo tema.

 

10/08/2024

Bruno Broccolo

 

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