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29 Marzo 2024
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Attualità

DAL VOLONTARIATO ALLA MEDICINA: L’ESPERIENZA DEL DR. GIUSEPPE TALESA.

E’ vero che alcune esperienze ti cambiano la vita. Altre sono così significative al punto tale da delineare in modo chiaro il percorso che si dovrà intraprendere per raggiungere scopi ben precisi; scopi che potrebbero intrecciarsi anche con l’esistenza di migliaia di altri esseri umani. Oggi parliamo con il Dr. Giuseppe Talesa una di quelle persone che ha deciso di dedicare la sua vita alla medicina.

Dr. Talesa, ci parli di Lei. Di cosa si occupa?

Io sono un medico chirurgo specialista in ortopedia e traumatologia. Mi sono laureato in medicina e chirurgia nel 2015 qui a Perugia. Dal 2016, fino a Novembre 2021 ho intrapreso la specializzazione in ortopedia e traumatologia. Ora lavoro come dirigente medico presso l’ospedale San Matteo degli Infermi di Spoleto.

  • Cosa L’ha spinto ad intraprendere la carriera di medico?

Nel mio caso è stato vedere mio padre. Lui è medico. Io fino a 19 anni ho vissuto in un piccolo paese della Calabria che si chiama Monte Rosso Calabro e qui, come in altre piccole realtà, la figura del medico non ha maggiore importanza, ha un’importanza diversa. Il medico non è considerato solo come un professionista dal quale si va solo quando si è malati ma riveste un ruolo sociale di confidente. Mi ricordo che mio padre, avendo avuto l’occasione di lavorare anche in questo piccolo paese, ha assunto tale ruolo e guardandolo, per me è stato naturale intraprendere questa strada. Si può dire che io abbia subito una sorta di influenza indiretta e genuina. Ho ancora scolpito nella mente mio padre che visitava i pazienti a casa nel suo studio proprio mentre poco più in là, in cucina, mia mamma lavava i piatti. (È un aneddoto che racconto sempre col sorriso sul volto). Grazie a mio padre, io mi sono sempre visto in questo ruolo. Ad ogni modo ci sono state anche molte altre occasioni, ancor prima della mia laurea, che hanno rafforzato questa mia vocazione naturale. 

  • Vuole parlarci della più significativa di tutte?

Si tratta di un episodio di vita quotidiana e familiare in cui mi sono sentito coinvolto in prima persona. Ricordo che era settembre del 2006 e io ero in macchina con i miei genitori quando improvvisamente arrivò una chiamata da parte del 118 per mio padre. C’era stato un grave incidente in montagna, nella pineta del mio paese. Con mio stupore, papà mi chiese di accompagnarlo subito sul luogo dell’incidente perché mi disse, mi ricordo molto bene, “Dobbiamo fare un’intervento”. Quel “dobbiamo” mi coinvolse indirettamente e profondamente. Io all’epoca non avevo nemmeno la patente ma solo il foglio rosa, figuriamoci della laurea in medicina. Così l’ho accompagnato lì e mi sono sentito subito coinvolto, preso in considerazione. Magari è stato complice anche il contesto d’emergenza dove mio padre era lì con me e non avrebbe potuto chiamare nessun’altro però questa è stata l’esperienza che più di altre mia ha fatto stare sul pezzo, mi è rimasta impressa nella mente e non potrò mai dimenticarla. 

    • In base a questa e ad altre Sue esperienze, può affermare che si è medici anche al di fuori del lavoro? 

 

Certamente. Credo che il medico ma anche tutti i professionisti sanitari, debbano avere delle spiccate qualità sociali. Nel mio caso, il medico, deve essere un animale sociale. La visita non è fatta solo dall’esame obiettivo. Prima di ciò viene l’anamnesi ovvero una discussione a tu per tu con il paziente riguardante tutti i fatti più rilevanti della sua salute ma anche di tutte le altre dimensioni della sua vita sociale e familiare. Il paziente ha bisogno di parlare. Già dalle prime domande, possiamo capire se il paziente si fida di noi professionisti e attraverso questo scambio di racconti dobbiamo fare in modo che i pazienti abbiano fiducia in noi.

  • Il tempo di ascolto è tempo di cura

Esatto. La visita inizia già dal “Come ti chiami?” “Quanti anni hai?”. Come dico spesso un medico cura raramente, allevia talvolta è consola sempre. 

    • E a Lei capita ancora di fare il medico al di fuori dell’ospedale?

 

Sì e soprattutto quando ritorno al mio paese, rivivo e ricopro ancora il ruolo di quella figura che viene sentita nelle piccole realtà, certo non come il mio papà. Diciamo che mi considero un po’ come un up grade, un Dr. Talesa 2.1 (ride, ndr)

  • Al di fuori del tuo percorso di studi e del Suo lavoro in ospedale, ci sono state delle occasioni in cui si è ritrovato a fare il medico in ambiti non prettamente ospedalieri o sanitari? 

Si. Prima della specializzazione, una volta neolaureato ho iniziato a fare piccole esperienze, come ad esempio la Guardia Medica. Poi il caso ha voluto che mi laureassi nel periodo dei frequenti sbarchi e quello di Vibo Marina è stato uno dei porti italiani che ha accolto il maggior numero di immigrati. E io mi sono trovato subito di fronte a questa emergenza che per me non ha avuto solo una valenza professionale, da cui ho imparato tanto. Per me ha avuto anche un’enorme valenza umana e morale. È un’esperienza che ricordo sempre con molto piacere. 

  • Secondo Lei quell’esperienza ha segnato in un certo qual modo, la Sua carriera di medico?

Certo perché lì, in un contesto d’emergenza, spicca l’aspetto morale della figura del medico. 

  • Che cosa si ricorda di quei giorni?

Soprattutto dei tanti bambini disperati, di tante donne che hanno anche partorito nelle tende della Croce Rossa. La disperazione di tante persone che magari non stavano nemmeno male, ma erano solo disperate. Ecco come traspare la valenza sociale e morale del medico. Forse è in occasioni come questa che viene messa ancora più in evidenza. 

  • Che cosa le hanno trasmesso quelle persone?

Forse io avrei dovuto trasmettere qualcosa a loro. Avrei dovuto trasmettere loro speranza, credo. Mi auguro di esserci riuscito. 

  • So anche della Sua esperienza di medico in una squadra di calcio. 

Si ho avuto l’onore di essere il medico sociale del settore giovanile del Perugia per circa due anni. Questa è stata un’altra grande esperienza che mi ha permesso di crescere dal punto di vista professionale ma che mi ha regalato anche l’occasione di conoscere tante persone con le quali ho avuto l’opportunità di confrontarmi.

  • I bambini Le hanno insegnato a loro volta qualcosa? 

Si perché lì è un contesto che va compreso. L’atleta è un paziente clinicamente sensibile soprattutto dal punto di vista psicologico. Anche nei contesti sportivi bisogna saper trasmettere fiducia. Questi ragazzi, sicuramente non saranno disperati come un bambino immigrato, ma anche loro hanno bisogno di una persona in grado di trasmettere sicurezza. Ricordo che molto spesso andavo a visitare i ragazzi nei convitti.

  • Che rapporto aveva con loro?

Occorreva molta pazienza. Prima di tutto sono piccoli quindi prima di essere dei calciatori e degli atleti sono degli adolescenti e in quanti tali devono vivere le loro esperienze e le loro emozioni extraprofessionali. Al giorno d’oggi è difficile far comprendere a dei ragazzi di quell’età il fatto che si debbano impegnare perché giocano in una squadra importante. Non è semplice come poteva esserlo una volta. Oggi la società, oltre ad essere molto esigente, è una fonte di distrazioni. Non sempre in senso negativo. Ma ciò che la società ci dice è che ci sono tante situazioni da poter vivere. Quindi è facile perdere di vista i propri obiettivi. 

Attraverso la mia professione ho cercato di trasmettere qualcosa di buono a quei ragazzi anche se non ero sicuro che riuscissero a comprendermi fino in fondo perché per loro molte volte giocare una partita in più era importante. Per loro, in un certo senso, rappresentavo il cattivo. Per esempio se avevano avuto un infortunio, spesso non dicevano nulla perché avevano paura che avrei potuto decidere per loro uno stop di 15 giorni. Mi rendo conto che per loro non ero una bella figura anzi, pur volendo il loro bene, ero comunque un personaggio negativo. Quindi acquistare la loro fiducia è stato veramente difficile e molte volte, per raggiungere questo traguardo, ho dovuto cercare anche l’aiuto di altri professionisti come i fisioterapisti. La squadra è paragonabile all’ospedale dove si lavora in équipe. Credo che nella mia formazione ci sia stata una gradualità che mi ha permesso di capire molti aspetti di questa professione e sicuramente molto altro ancora avrò da apprendere. L’unica certezza è che la fiducia del paziente viene prima di tutto.

  • Tra tutte le esperienze che ha vissuto, c’è il ricordo di qualche paziente in particolare che porterà con sé per sempre?

Di ricordi ne ho tanti. Per me ogni volta che un paziente mi ringrazia o mi fa gli auguri di Natale, è una fonte di orgoglio perché significa che ho lavorato bene.

10/06/2022

Samanta Sforna

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