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25 Aprile 2024
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“Il vaccino come lo sbarco sulla luna”. Intervista al dott. Francesco Balducci, medico nel reparto Covid dell’ospedale di Perugia

Intervista al dott. FRANCESCO BALDUCCI, medico nel reparto Covid dell’ospedale di Perugia

Plasma iperimmune, anticorpi monoclonali, vaccini, piani, polemiche e ritardi mentre il virus con le sue varianti continua a mietere vittime nella nostra regione. Di tutto questo parliamo con il dott. Francesco Balducci, all’ultimo anno di specializzazione in Medicina di Emergenza e Urgenza che ci consegna la sua appassionata testimonianza di vita e di lavoro.

Nei primi mesi della pandemia, quando i vaccini sembravano lontanissimi, si parlava dei miracoli operati dalle trasfusioni di plasma iperimmune, adesso invece tiene banco il discorso sugli anticorpi monoclonali. A che punto siamo con le sperimentazioni?

Lo studio italiano sull’utilizzo del plasma iperimmune, denominato TSUNAMI e coordinato dall’Università di Pisa e Pavia con l’Umbria come centro reclutatore, è in fase di analisi dei dati, attendiamo i risultati definitivi e le evidenze che ne risulteranno. Molto promettenti i possibili risultati degli anticorpi monoclonali anche se con rilevanti problematiche da affrontare, legate alla selezione dei pazienti da trattare e alla logistica della somministrazione della terapia (che va fatta nei primissimi giorni del contagio ed in ambito ospedaliero) per cui, purtroppo, non saranno la soluzione definitiva. Attendiamo i risultati ufficiali delle sperimentazioni cliniche, anche se il vaccino resta la strada privilegiata. Il giorno in cui mi è stata somministrata la prima dose di vaccino Pfizer-BioNTech, i primi di Gennaio 2021, a solo un anno dal primo sequenziamento genetico di SARS-COV2 in Cina, è una data che ricorderò per sempre. Il primo passo di una liberazione che sarà ancora lunga e dolorosa, ma che ora è una prospettiva certa per il futuro. La realizzazione del vaccino è un fatto di portata storica, come lo sbarco dell’uomo sulla luna.

Nella nostra regione si è passati dagli 88 morti della prima ondata agli oltre 800 della seconda, con sanitari ammalati, varianti impazzite e un picco inimmaginabile solo qualche mese fa, ma come possiamo difenderci?

Nella prima ondata, il lockdown tempestivo ha impedito la circolazione del virus e tutto il centro Italia è stato, in un certo senso, risparmiato, così invece non è stato nella seconda dove la circolazione si è rivelata più intensa dando modo al virus di espandersi in maniera incontrollata. Dobbiamo, come singoli, stringere i denti ora più che mai, seguire scrupolosamente le regole (mascherine, distanziamento, igiene) e come collettività accelerare il più possibile la campagna di vaccinazione e immunizzare quanta più popolazione possibile nel più breve tempo.

Da giovane medico, impegnato nel reparto Covid dell’ospedale di Perugia, come hai vissuto, dal punto di vista umano, questo periodo?

Guardando il calendario mi sembra impossibile che sia passato un anno dall’inizio della pandemia. Eppure, paradossalmente, se ripenso alla prima notte di guardia dell’11 Marzo, in un reparto che era diventato quello deputato a ospitare pazienti Covid, mi sembrano passati dieci anni. Ricordo il magma di sensazioni, la paura di contagiarsi ed essere a propria volta vettore e responsabile del contagio a casa, la sorpresa di ritrovarsi ad affrontare per la prima volta un agente patogeno del tutto sconosciuto e una malattia che non era presente in nessun libro di medicina. Ricordo e terrò sempre con me, la commozione e l’enorme senso di orgoglio di far parte di un Servizio Sanitario Nazionale in cui tutti i colleghi medici, infermieri, OSS, addetti alle pulizie non si sono tirati indietro neanche per un secondo di fronte a questa sfida ignota. Una volta imparate le procedure di vestizione e vestizione dei dispositivi di protezione individuale, l’unica cosa importante era capire al più presto come aiutare nel miglior modo possibile i pazienti positivi. A distanza di quasi un anno tutte le emozioni si sono stratificate; conosciamo molto meglio il virus e la malattia, anche se purtroppo, nonostante gli sforzi della comunità medico-scientifica mondiale, non abbiamo ancora la pallottola d’argento che impedisca alla forma severa di Covid 19 di devastare i polmoni dei pazienti in forme prima difficilmente immaginabili alle nostre latitudini.
La cosa con cui rimane più difficile fare i conti anche per noi sanitari è l’isolamento a cui sono costretti i pazienti rispetto ai propri familiari. Nella prospettiva di cura ha assunto, forse, ancora più importanza il rapporto umano che si instaura tra gli operatori sanitari e i malati, un rapporto fatto di occhi e mani protette da guanti che si intrecciano e cercano di sciogliere le paure, raccontandosi a vicenda le proprie vite fuori da lì. E allora, anche se schermato dal camice impermeabile, la doppia mascherina, gli occhiali, la visiera, i tripli guanti, torna più utile che mai l’esempio e il ricordo del sorriso di papà (il compianto dott. Luigi Balducci, n.d.r.) con i suoi pazienti, l’insegnamento concreto del rapporto medico-paziente come elemento fondamentale e insostituibile della cura, rendendo giustizia al termine “clinico”, colui che si china sul letto del paziente cercando di annullare la distanza per vincere la sofferenza. E quando le cose purtroppo vanno male, la frustrazione, l’amarezza, spesso lacrime nascoste in solitudine, sono il pane quotidiano di tutti quanti. Per questo mi infastidisce quando la terribile conta quotidiana dei decessi sembra diventare un freddo bollettino da notiziario, con numeri spaventosi letti ed ascoltati come se nulla fosse perché ogni singola unità era un nonno, un padre, una madre, un fratello, una storia unica e irripetibile che lascia gli amori di una vita senza averli, probabilmente, visti mai più nell’ultimo mese di malattia.
Ci vorrebbe un Edgar Lee Master che scrivesse un’enorme Antologia di Spoon River per rendere giustizia a questo tesoro esistenziale andato perduto. Per tutto questo, oggi, il colpo di genio scientifico del vaccino è una meravigliosa, ragionevole certezza per un futuro in cui, come comunità, potremo riprendere a vivere e curare le nostre, profonde, ferite.

ARTICOLO PUBBLICATO SU TERRENOSTRE – NUMERO DI FEBBRAIO 2021

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