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Cultura

Intervista a Mons. Gualtiero Sigismondi. “RISORGEREMO”

Mons. Gualtiero Sigismondi è nato a Ospedalicchio di Bastia Umbra il 25 Febbraio 1961 ed è l’unico umbro tra gli otto vescovi della nostra regione.


Eccellenza prima d’ora chiese vuote, adesso boom di ascolti per messe, rosari, benedizioni, omelie; la fede come ultima spiaggia o segno di una identità da riscoprire?
La Chiesa sta diventando minoranza ma, lungi dal lasciarsi marginalizzare, deve concepirsi e agire come presenza profetica. Sebbene il numero dei fedeli si assottigli sempre di più – i giovani sono l’indice più alto di questo processo di frantumazione –, tuttavia il problema non è essere poco numerosi ma diventare insignificanti! Il “piccolo gregge” dei credenti diventa “sale della terra e luce del mondo” (cf. Mt 5,13-16) se s’immerge nella pasta della storia. Nelle circostanze attuali è necessario chiedersi: da dove ricominciare? Dal primato della formazione, così come ha fatto l’apostolo Paolo a Corinto (cf. At 18,1-11). Egli parte da una casa, quella di Aquila e Priscilla, con cui condivide la condizione di forestiero e l’attività professionale. La loro abitazione diventa una domus Ecclesiae, un luogo di condivisione della Parola e del Pane. Promuovere la famiglia è, dunque, una priorità pastorale, poiché se non si riparte da essa il nostro impegno per l’evangelizzazione sarà solo una rincorsa affannosa.

Emorragia, anemia, asma e miopia sono state da lei definite le patologie pastorali più diffuse, quali farmaci sta attualmente sperimentando per bloccarle?
Il Santo Padre, nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, sollecita la Chiesa sia a passare dalla pastorale del campanile a quella del campanello, senza rinunciare al suono delle campane, sia a raggiungere i crocicchi delle strade, riscoprendo la “grammatica” del “primo annuncio”. Nella vita pastorale è necessario passare dal sistema di irrigazione “a scorrimento” o “a pioggia” delle iniziative di mantenimento a quello di “subirrigazione” o “a goccia” dei cammini di accompagnamento, che coniugano il verbo più nobile e transitivo del lessico di Gesù: servire. È inutile calzare i sandali se non si piegano le ginocchia. “Per stare in piedi davanti al mondo – raccomandava don Oreste Benzi – bisogna stare in ginocchio davanti a Dio”. La cura della vita interiore è, dunque, la prima attività pastorale, la più importante. “Il problema non è la riforma delle istituzioni, le chiese vuote e la crisi delle vocazioni: il problema è la fede”.

La strage dei vecchi, in tempo di Coronavirus, ha fatto sparire tutta insieme, in certe zone del nord, una intera generazione che costituiva il vero welfare familiare, chiedo a Lei, particolarmente legato alla figura di sua nonna, una breve riflessione in tal senso.
Il profeta Gioele, annunciando il dono dello Spirito di profezia, assicura che i giovani avranno visioni mentre saranno gli anziani a fare sogni (cf. Gl 3,1); solitamente accade il contrario: sono gli anziani ad avere visioni e i giovani a fare sogni. Lo Spirito rende giovani gli anziani e, per così dire, rende adulti i giovani, i quali hanno bisogno di educatori che sappiano mettere in gioco se stessi, i valori in cui credono. Il dialogo tra i sogni degli anziani e le visioni dei giovani trova una metafora molto efficace in un frutto della terra, il tartufo, un fungo ipogeo che cresce accanto alle radici di alcuni alberi con cui stabilisce un rapporto simbiotico. Il corpo fruttifero del tartufo con i suoi filamenti assume gli zuccheri, che non trattiene ma trasmette alle radici della pianta, la quale ricambia in dono i sali, favorendone la maturazione e accrescendone il profumo.

Pretese, attese, sorprese sono i tre elementi che caratterizzano il percorso di vita di ogni uomo, a che punto è il suo?
L’educazione alla fede presuppone l’agostiniana “ginnastica del desiderio”, che consiste nel convertire le ambizioni in aspirazioni, cioè nell’abbandonare qualsiasi pretesa e persino ogni attesa, lasciando spazio alle sorprese dell’amore di Dio. La libertà da se stessi, che è la “misura alta” della libertà, consiste nel tradurre, più con i gesti che con le parole, queste invocazioni del Salmista: “Quanto sono amabili le tue dimore, Signore, degli eserciti! L’anima mia anela e desidera gli atri del Signore. Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente (…). Beato chi abita nella tua casa: senza fine canta le tue lodi. Beato l’uomo che trova in te il suo rifugio e ha le tue vie nel suo cuore” (Sal 84,2-3.5-6).

Eccellenza ci dia qualche ‘ricetta’ per le ‘portate’ da inserire nel pranzo pasquale.
La ricetta l’ha suggerita Papa Francesco nel momento straordinario di preghiera da lui presieduto, il 27 marzo scorso, in una Piazza San Pietro gremita di silenzio. “L’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle. Con Lui a bordo, non si fa naufragio”. Celebrare il Triduo pasquale a porte chiuse è una dura prova, per tutti, ma è un appello a reimpostare la rotta della conversione pastorale. La comunità ecclesiale è chiamata ad esprimere il suo zelo missionario conservando un contatto continuo con le Scritture e cercando nuove frequenze, messe a disposizione dall’ambiente digitale, capace di gettare ponti soprattutto con le nuove generazioni. Il digiuno eucaristico, sebbene ripresenti al vivo la sofferenza vissuta dai martiri di Abitene – “senza la Domenica non possiamo vivere” –, interpella le famiglie cristiane a diventare ancora di più quello che sono, “Chiesa domestica”, Cenacolo a cielo aperto.

La data del suo insediamento come vescovo nella diocesi di Orvieto-Todi subirà qualche variazione?
Nel mio primo messaggio alla Diocesi di Orvieto-Todi ho confidato che sarei entrato “a piedi nudi” nel duomo di Orvieto e in quello di Todi. Le circostanze dell’attuale emergenza sanitaria mi invitano a entrare “in punta di piedi”, a data da destinarsi, allo stesso modo in cui mi dispongo a lasciare la Diocesi di Foligno con immensa gratitudine a Dio e ai fratelli. Obbedire significa partire e partire vuol dire un po’ morire: non per quello che l’obbedienza chiede, ma per quanto la riconoscenza esige!

di Giuseppina Fiorucci

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